STORIA E FATTI



7 aprile 2022 

PROVINCIA DI LATINA "PERIFERIA CAMPANA"

L’Antimafia: sempre più corruzione tra imprenditori e politica

Fonte: il Caffe'.tv


 

In provincia di Latina la mafia continua a prosperare anche grazie alla politica. Ottenendo in particolare concessioni edilizie facili e appalti pubblici. Lo sostiene la Dia nell’ultima relazione presentata alla Camera dal ministro Luciana Lamorgese, relativa all’attività della Direzione investigativa antimafia nel primo semestre 2021.

“Recenti risultanze investigative e giudiziarie – viene specificato nel rapporto – hanno fatto emergere rapporti collusivi-corruttivi tra imprenditori nei settori dell’edilizia e del commercio e contesti politico-amministrativi locali, finalizzati ad agevolare il rilascio di concessioni edilizie ovvero per ottenere l’aggiudicazione di appalti nei settori dei servizi pubblici”.

Il territorio pontino viene quindi definito come un’area caratterizzata dalla coesistenza di diverse organizzazioni criminali, in cui le proiezioni delle mafie tradizionali, soprattutto camorra e ‘ndrangheta, convivono e fanno affari con quelle autoctone.

La Dia batte sulla mafia rom dei Di Silvio, sulle ‘ndrine calabresi attive con soggetti riconducibili ai clan Bellocco, La Rosa-Garruzzo, Tripodo, Alvaro, Aquino-Coluccio, Commisso e Gallace. E viene sottolineata la presenza ad Aprilia di esponenti della famiglia Gangemi, vicini ai reggini De Stefano.

Per quanto riguarda invece la camorra, viene evidenziata la vicinanza geografica del sud pontino alla Campania, che rende l’area “una sorta di periferia campana” utilizzabile quale rifugio per i latitanti o dove estendere i traffici illeciti, dal riciclaggio al reimpiego dei capitali nei settori dell’edilizia e del commercio, nonché nel circuito agroalimentare e della ristorazione”.

Attivi in provincia di Latina esponenti dei Casalesi, “storicamente rappresentati dai Bardellino, dai Bidognetti e dalle altre componenti del pericoloso cartello casertano”, dei clan Moccia, Mallardo, Giuliano e Licciardi. “Le consorterie criminali – aggiunge la Dia – si sono dimostrate da sempre interessate all’infiltrazione e al condizionamento degli ambienti imprenditoriali anche a fini di riciclaggio e di evasione fiscale”. Infine la piaga del caporalato “ad opera di imprenditori locali senza scrupoli”.

07/04/2022

Clemente Pistilli


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PUBBLICHIAMO IL LINK 

AD UN SERVIZIO DELLA TESTATA

"TGR LAZIO"

DEL DICEMBRE 2021 IN CUI

SI FA RIFERIMENTO ALLA PRESENZA


DELLA MAFIA SUL TERRITORIO PONTINO

ED AI CRIMINI AD ESSA COLLEGATI,

INCLUSO L'ASSASSINIO DI

DON CESARE BOSCHIN: 




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Nuove conferme. Fu la camorra dei rifiuti a uccidere 22 anni fa don Boschin?
 Pino Ciociola,  7 gennaio 2017
Basso Lazio, 1995. Don Cesare Boschin incaprettato. La camorra peggiore. Rifiuti terribili. Una nave con oltre 10mila barili di scorie chimiche
«Siamo più che certi. C’è roba molto pericolosa nella discarica. Anche perché tanti di noi hanno visto. Io stesso ho visto i camion e i fusti...»: Claudio Gatto è stato vent’anni braccio destro di don Cesare Boschin. E aggiunge, per farsi capire meglio: «Avevamo consapevolezza che la camorra avesse il controllo del nostro territorio».
Basso Lazio, 1995. Un prete ottantunenne incaprettato perché voleva salvare la sua gente. La camorra più infame. Imprenditoria e politica. Una nave rifiutata in tutti i porti. E oltre 10mila barili di scorie tossiche di almeno tante aziende chimiche. Siamo nel basso Lazio, gli anni intorno al 1995.
Fa freddo anche la sera del 29 marzo di ventidue anni fa. Alcuni parrocchiani e il suo braccio destro rimangono con lui fin quasi a mezzanotte, poi vanno via. Don Cesare Boschin non vorrebbe dormire solo, ha paura. Nelle settimane precedenti gli sono arrivate certe telefonate e sono andati a trovarlo due signori che nemmeno aveva invitato a sedersi, e non farlo era assai strano per quel prete. Che ha la porta sempre aperta e un tumore in fase terminale ai polmoni. La mattina lo trova nella camera da letto la perpetua.
Don Cesare è incaprettato, lividi e ossa rotte. Nastro adesivo intorno alla gola e la dentiera – accertò poi l’autopsia – che l’ha strozzato. Le indagini dureranno quattro mesi, poi l’omicidio sarà liquidato come conseguenza di una rapina. Ma quella notte sono scomparse le agende del sacerdote, mentre nella tasca della tonaca, appesa alla porta, è rimasto il portafoglio con 700mila lire dentro. E 7 milioni in una scatola nell’armadio.
Il pentito Carmine Schiavone raccontò che il basso pontino era roba della camorra. Siamo negli anni ottanta, Latina è affidata alle "cure" di Antonio Salzillo (ammazzato il 6 marzo 2009), nipote di Antonio Bardellino, fondatore del clan. Proprio Salzillo fa seppellire nella discarica di Borgo Montello, a qualche chilometro dal capoluogo, «bidoni di rifiuti tossici, per ognuno dei quali prendeva cinquecentomila lire». Tutti, a Borgo Montello, sanno che in quella discarica viene "sversato" di tutto. Spiega Claudio Gatto che «più il materiale era pericoloso, maggiore era il loro guadagno». Sempre nel 1995 l’Enea scopre tre grandi ammassi metallici, due hanno dimensioni di 10 metri per 20, l’altro addirittura 50 per 50, sono tra 8 e 10 metri di profondità. L’ipotesi su cosa possano essere mette i brividi. Tornò ad avanzarla sei anni fa l’allora Questore di Latina, Nicolò D’Angelo: «Da poliziotto, io dico che quel che c’è sotto la discarica di Borgo Montello andrebbe monitorato approfonditamente...», spiegò ai membri della Commissione parlamentare sulle ecomafie.
A metà degli anni novanta, un operaio licenziato dalla discarica raccontò di aver preso parte all’interramento, notturno, di molti fusti con sostanze tossiche. Che sarebbero stati parte dei diecimilacinquecento che erano nelle stive della nave Zanoobia e contenevano le scorie tossiche di almeno 140 aziende chimiche europee. Rifiutata dai porti di mezza Europa, nel 1988 alla fine arrivò a Ravenna. I suoi fusti furono spostati provvisoriamente in un deposito dell’Emilia Romagna e non si seppe mai come furono smaltiti. «In discarica arrivavano camion proprio da quel posto dell’Emilia Romagna...», spiega ancora Claudio Gatto.

Don Cesare Boschin stava denunciando in ogni modo quanto accadeva nella discarica e il Comitato dei cittadini contro la discarica aveva sede nella parrocchia. Dopo l’assassinio del sacerdote, il Comitato si sciolse.

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Navi dei veleni, l’ipotesi di un omicidio
di David Chiappuella 13 gennaio 2017
Un parroco fu ucciso a Latina 22 anni fa: denunciava lo sversamento dei rifiuti tossici. Molti di quei fusti transitarono a Marina


CARRARA. Fu la camorra dei rifiuti a uccidere 22 anni fa don Cesare Boschin? Ad ipotizzarlo è Pino Ciociola, giornalista dell'Avvenire, in un articolo pubblicato lo scorso 7 gennaio, il quale sembra suggerire che la morte del coraggioso sacerdote sia da ricondurre al caso delle navi dei veleni partite dal nostro porto tra il 1986 ed il 1988, con carichi di rifiuti tossici o radioattivi destinati al Terzo Mondo. Don Boschin, ucciso il 29 marzo 1995, stava denunciando da tempo gli sversamenti di sostanze tossiche effettuati dalla camorra nella discarica di Borgo Montello, vicino a Latina. Il sacerdote, all'epoca ottantunenne ed affetto da un tumore ai polmoni in fase terminale, fu ritrovato incaprettato, con lividi ed ossa rotte. Gli inquirenti, dopo 4 mesi, liquidarono l'omicidio come conseguenza di una rapina. Ma a scomparire furono solo le agende di don Boschin, mentre il suo portafoglio, contenente 700mila lire, era rimasto nella tasca della tonaca, così come 7 milioni custoditi dentro un armadio. Ciociola ricorda che nella discarica di Borgo Montello venivano interrati illegalmente molti bidoni contenenti rifiuti tossici, per ognuno dei quali la camorra intascava 500mila lire. Il giornalista dell'Avvenire riporta anche le dichiarazioni rilasciate a metà anni '90 da un operaio licenziato dalla discarica, secondo il quale questi fusti «sarebbero stati parte dei diecimilacinquecento che erano nelle stive della nave Zanoobia e contenevano le scorie tossiche di 140 aziende chimiche europee».
La Zanoobia, -prosegue Ciociola- «rifiutata dai porti di mezza Europa, nel 1988 alla fine arrivò a Ravenna. I suoi fusti furono spostati provvisoriamente in un deposito dell'Emilia Romagna e non si seppe mai come furono smaltiti».
Nella discarica di Borgo Montello arrivavano camion proprio da quel posto dell'Emilia Romagna. Ma quella della Zanoobia è la storia di un traffico illecito di rifiuti tossici che inizia a Carrara. I veleni da essa trasportati, infatti, erano partiti dal nostro porto, ma a bordo di un'altra nave. Si trattava del cargo maltese Lynx, salpato da Carrara l'11 febbraio 1987, con 7 containers zeppi di pericolose scorie chimiche, raccolte all'interno dello scalo apuano dalla società Jelly Wax di Milano. Questo traffico illecito fu scoperto grazie alle denunce che la lista dei Verdi di Carrara, in cui Riccardo Canesi era stato eletto consigliere comunale, presentò nel febbraio 1987, allarmata dall'arrivo di un centinaio di camion carichi di bidoni sospetti sulle banchine del nostro porto. Canesi, docente di geografia all'Istituto di istruzione superiore "Domenico Zaccagna" ed ex deputato dei Verdi, ricorda molto bene quegli eventi.
«Per bloccare la Lynx -racconta- presentai denuncia alla procura di Massa, insieme ad Antonella Cappè e Alberto Giorgio Dell'Amico. Un alto magistrato dell'epoca, però, cercò di dissuaderci. Sapendo che la Lynx avrebbe attraccato a Puerto Cabello, in Venezuela, avvisai le autorità di quel Paese del suo carico micidiale e per questo fui ringraziato dall'ambasciatore venezuelano».
Sembra però che un ragazzo venezuelano (c'è chi dice una bambina), riuscì ad avvicinarsi troppo ai fusti scaricati dalla Lynx e si sentì male, forse addirittura morì. I pescatori del luogo, inoltre, riferirono di centinaia di pesci morti a causa del letale mix di inquinanti trasportati da quel mercantile. Il governo di Caracas, quindi, obbligò la Jelly Wax a riprendersi i fusti. Il 2 settembre 1987 la società milanese noleggiò la nave greca Makiri, per trasportare verso la Siria quel carico di veleni, partito 7 mesi prima da Marina di Carrara. Dopo un nuovo trasbordo, i fusti finirono sulla Zanoobia, appartenente all'armatore siriano Ahmed Tabalo, che fu la prima nave ad essere chiamata "dei veleni". Essa, dopo aver tentano invano di attraccare in molti porti europei, sbarcò i fusti tossici a Genova, nel maggio 1988. Ciociola ricorda che quei veleni finirono poi in Emilia Romagna e la loro destinazione finale resta ancora oggi sconosciuta. Tra i numerosi porti in cui la Zanoobia aveva inutilmente tentato di sbarcare prima dell'arrivo a Genova figura -ancora una volta- quello di Marina di Carrara, da cui il suo carico di morte era partito un anno prima. Migliaia di fusti erano ormai rovinati ed alcuni marinai della nave furono anche ricoverati all'ospedale di Massa per intossicazione da rifiuti nocivi. L'intenzione, probabilmente, era quella di smaltire i fusti tossici nell'inceneritore della Farmoplant di Massa. Esso, attivo dal 1976, era denominato "Lurgi", perché costruito dall'omonima società di ingegneria, di cui era azionista di maggioranza il leader socialista Bettino Craxi. L'inceneritore "Lurgi", fatiscente, inquinante e privo di garanzie di sicurezza, avrebbe dovuto bruciare solo i rifiuti chimici della Farmoplant e, invece, smaltiva grandi quantità di ogni genere di rifiuti pericolosi, provenienti da mezza Europa.


http://m.iltirreno.gelocal.it/massa/cronaca/2017/01/13/news/navi-dei-veleni-l-ipotesi-di-un-omicidio-1.14708576?refresh_ce
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RENDIAMO DISPONIBILE IL TESTO DELLA TESI DI LAUREA DI GIORGIO MANUNZA 
DAL TITOLO


Da terra bonificata a terra di mafia?
Latina e agro pontino: percorso storico e cronache criminali 1991-2014
(Università La Sapienza - Roma- Anno Accademico 2013-2014)

PER VISUALIZZARLA  O  SCARICARLA 
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Mafia nel sud pontino. Serve un’alleanza civile contro padroni e padrini
27 maggio 2017

Discutere di mafie e antimafia è sempre importante. Consente di approfondire l’analisi, aggiornare le conoscenze, migliorare le azioni di contrasto nei riguardi di un fenomeno che solo con la partecipazione consapevole dei cittadini e l’impegno concreto dello Stato può essere sconfitto. Affrontare il tema delle mafie e della loro capacità di condizionare settore nevralgici dell’economia e delle istituzioni costituisce sempre una necessità irrinunciabile. Questo è però particolarmente vero in quei territori in cui le mafie sono presenti da decenni e che per anni invece sono stati considerati libera dal fenomeno. Una forma di negazionismo in realtà funzionale al processo di insediamento e radicamento delle mafie in quegli stessi territori. Si è voluta tenere bassa l’attenzione, sminuirne la portata, in alcuni casi si sono anche gravemente minacciati giornalisti, associazioni e politici che invece denunciavano, nel merito, la presenza di una consorteria criminale dentro la quale mafiosi, padroni, sfruttatori, imprenditori collusi e notabili corrotti siedevano dalla stessa parte del tavolo.

Per questa ragione il prossimo convengo organizzato il 01 giugno a Fondi, in provincia di Latina, presso il bellissimo Palazzo Caetani in corso Appio Claudio 11, alle ore 17.30, dal titolo Padrini e padroni nella provincia di Latina – analisi e contrasto alle mafie, organizzato da Reti di Giustizia – il sociale contro le mafie, Tempi Moderni aps e con il patrocinio del Parco Naturale dei Monti Ausoni e Lago di Fondi, è di particolare importanza.


Non si tratta solo di un convegno al quale parteciperanno personalità note del giornalismo, dell’associazionismo e delle istituzioni, impegnate da anni contro le mafie e i loro interessi. È invece il tentativo di coinvolgere la cittadinanza attraverso un’alleanza civile contro la presenza e la prepotenza di padroni e padrini che da decenni sono presenti nel Sud Pontino e hanno fatto di città meravigliose come Fondi, Formia, Gaeta e altre, l’avamposto dei loro affari e traffici. Al convegno parteciperà il Questore di Latina, dott. Giuseppe De Matteis, il sociologo Marco Omizzolo, autore de La Quinta Mafia avente ad oggetto i principali fatti di mafia e le azioni contro la stessa messe in campo negli anni Ottanta, Fabrizio Marras di Reti di Giustizia contro le mafie e Paolo Borrometi, giornalista, collaboratore di Articolo21 e da anni impegnato nella denuncia, attraverso i suoi articoli, degli affari delle mafie nel Mercato Ortofrutticolo di Vittoria. Interverrà anche il responsabile legalità della CGIL di Frosinone e Latina, Dario D’Arcangelis, mentre a moderare è stata chiamata la giornalista de L’Espresso, Floriana Bulfon.

Le mafie nel pontino ci sono da decenni. E non solo alcune mafie. Sono presenti i Moccia, gli Alvaro, il clan Ciarelli-DiSilvio, i Casamonica, i Cava, i Mallardo, i Crupi e molti altri. Chianese era uso trascorrere diversi mesi a Sperlonga nella sua lussuosa villa. C’è il clan dei Casalesi, la mafia siciliana, la ‘ndrangheta, la Sacra Corona Unita, la Camorra e molte sue costole. E poi ci sono le nuove mafie che sono in fase di costituzione. La provincia di Latina è il luogo in cui ha trovato la morte Don Cesare Boschin, incaprettato nella sua canonica, noto per le sue denunce contro il traffico internazionale di rifiuti che interessava la discarica di Montello, intorno alla quale era certa la presenza dei casalesi a partire da Carmine Schiavone e spesso anche di Francesco Schiavone. E poi del tristemente noto “caso Fondi”, unica amministrazione e non essere stata sciolta per mafia nonostante una voluminosa e dettagliata relazione dell’allora Prefetto Frattasi (2008) e due dichiarazioni favorevoli allo scioglimento dell’allora ministro degli Interni, Maroni (Governo Berlusconi). Fondi e il suo Mof, il Mercato Ortofrutticolo. Una delle realtà commerciali e imprenditoriali più importanti per l’ortofrutta d’Italia e d’Europa. Davanti a quel gigante dai piedi d’argilla si ritrovavano Gaetano Riina, fratello di Totò Riina, e Nicola Schiavone, figlio di Carmine Schiavone detto Sandokan, tra i fondatori del clan dei Casalesi. Le indagini portarono alla luce il sodalizio criminale tra i casalesi, i Mallardo e i corleonesi per la gestione di vari mercati ortofrutticoli del Sud Italia dalla Sicilia a Fondi. I clan campani fungevano da service per trasporti e logistica mentre i mafiosi siciliani fornivano i prodotti agricoli. E poi soldi su soldi. Le mafie hanno riempito casseforti e armadi di soldi sporchi poi ripuliti attravero attività commerciali e imprenditoriali di varia natura (grandi centri commerciali, piccole attività imprenditoriali, attività di scommesse…). Camion che trasportavano frutta e poi armi e droga probabilmente portavano all’estero anche denaro mafioso, frutto di rapine, estorsioni e traffici illeciti di varia natura. E ancora il ciclo illegale del cemento e dei rifiuti. Ne La Quinta Mafia viene citata la discoteca Seven Up, alcova mafioso espressione di relazioni perverse anche con settori del mondo bancario, tanto da mandare in crisi per dissesto addirittura l’allora Banca Popolare di Gaeta (1983). Le conseguenze sul lavoro dell’agire mafioso sono sempre state drammatiche. Ancora ne La Quinta Mafia viene ad esempio ricordato come già nel lontano 1982 solo nel pontino si contavano 20 vittime di lavoratori deceduti per via di condizioni di lavoro pericolose e ben 3400 incidenti, in alcuni casi anche gravi, avvenuti a danno di lavoratori impiegati in aziende mafiose.

Questa non è solo cronaca. È un metodo mafioso e un processo di insediamento e radicamento che è affaristico ma anche politico. Le mafie comprano non solo il silenzio ma anche il consenso. Migliaia di voti fatti girare, come fogli di carta, da un candidato ad un altro, solo per tutelare i propri affiliati, interessi, affari. E il consenso troppo spesso passa attraverso pericolose frequentazioni tra politici locali e boss mafiosi. A Latina ad esempio alcuni deputati di destra amavano farsi vedere sotto braccio con il boss di turno (vedi clan Ciarelli-Di Silvio). Quello stesso clan che per anni ha “gestito” i suoi affari milionari condizionando direttamente le attività del Latina Calcio. Mafia e sport è un’alleanza che nel pontino vige da anni, spesso con diramazioni pericolose che arriverebbero fino alle istituzioni più alte del mondo del calcio. Riciclaggio, spaccio di droga e ricerca del consenso sono andate sempre a braccetto.

Parlare di mafie nel pontino significa discutere anche di sfruttamento lavorativo e caporalato, con riferimento in particolare ai braccianti soprattutto indiani. Uomini e sempre più anche donne costrette a lavorare 12 ore al giorno per ricevere appena 3,50 euro l’ora. Obbligati a chinare la testa, a chiamare padrone il loro datore di lavoro, a subire ricatti e violenze e a non denunciare quasi mai infortuni anche gravi. La violenza del padrone è del tutto simile a quella del padrino. Una situazione denunciata spesso da In Migrazione e dalla Flai CGIL. Il fenomeno del doping usato dai lavoratori per non sentire le fatiche nei campi è diffuso e drammatico, come anche le violenze del padrone/padrino che agisce con modalità mafiose fino a generare la riduzione in servitù o schiavitù del lavoratore. Anche di questo si discuterà il 01 giugno. Mettere insieme questi due aspetti, senza confonderli ma analizzandoli invece in relazione alle relative interazioni consente di comprendere le modalità proprie di una mafia pontina in fase di ristrutturazione e i suoi vari interessi.

Pochi gli interventi contro il sistema mafioso pontino dei deputati pontini. L’On. Fazzone, ad esempio, membro della commissione parlamentare antimafia, non si è mai contraddstino per un particolare impegno su questo fronte. Neanche quando la commissione antimafia, sollecitata sul tema del caporalato e della tratta in seguito alla pubblicazione del dossier Doparsi per lavorare come schiavi della coop. In Migrazione e in seguito all’impegno dell’On. Mattiello, decise di incontrare le autorità locali in Prefettura. Tutto sotto controllo disse. La mafia c’è ma non crea problemi. Un po’ come quei politici che proprio durante lo scontro istituzionale sullo scioglimento dell’amministrazione comunale di Fondi, definirono i membri della Commissione d’Accesso di quel Comune (uomini delle forze dell’ordine di primissimo livello), “pezzi deviati dello Stato”. Una storia nota.

La storia recente nel Pontino è fatta anche di arresti eccellenti (Cusani ad esempio, ex presidente della provincia e responsabile delle affermazioni sopra menzionate sulla commissione d’accesso al Comune di Fondi), di contrasto giudiziario all’economia mafiosa con il sequestro di numerose loro attività. A queste azioni si somma un rinnovato attivismo sociale e sindacale. Il 18 aprile del 2016 più di duemila braccianti indiani, sollecitati e aiutati da In Migrazione e dalla Flai CGIL, scioperano e manifestarono sotto gli uffici della Prefettura contro lo sfruttamento e la tratta. Migliaia di ragazzi partecipano alla giornata della memoria e contro le mafie del 21 marzo, nelle scuole si entra con maggiore facilità a parlare di questi temi. Nuove amministrazioni governano città da sempre vittime del lerciume mafioso e dei relativi interessi. Latina fa da capofila in tal senso. Buone le aspettative e gli impegni, attendiamo le conferme.
La storia delle mafie e delle sue connivenze nel pontino è però assai lunga e non basta qualche giornata di sole per annunciare una nuova primavera. Di certo, a pochi giorni dai 25 anni dalla strage di Capaci, parlare di mafie e antimafia, di legalità e giustizia sociale, di diritti e di libertà nel pontino è particolarmente importante. Non perché tutto sia stato già fatto, ma perché molto c’è.
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Articolo da: La Provincia del 30 Aprile 2009 



Omicidio all’ombra dei rifiuti 

di Rita Cammarone

La pista della rapina non portò a nulla. Un altro delitto sottoposto all’attenzione dell’Antimafia Don Cesare Boschin pestato a morte. Un avvertimento alla gente del posto? Don Cesare era sul letto, con un cerotto che gli chiudeva la bocca, la faccia e il corpo pieno di lividi, la tonaca indossata, legato mani e piedi con una corda che gli passava anche attorno al collo. Ecco la tragica fine di un prete, parroco di un borgo, avamposto di grandi interessi come la discarica di

Montello.

Era la mattina del 30 marzo 1995 quando la macabra scena apparve sotto gli occhi della perpetua. Gli inquirenti stabilirono che il decesso fu provocato da una cruente aggressione avvenuta all’interno del suo appartamento (l’autopsia stabilì che il parroco rimase soffocato da una protesi dentaria staccasi per via delle percosse). Ma chi lo ridusse in quello stato? E perché? Gli interrogativi non furono mai sciolti. O meglio, la risposta restò soltanto nel limbo dei sospetti che alla fine finirono per gettare ombre sull’onorabilità della vittima. L’omicidio di don Cesare Boschin, da decenni parroco di Borgo Montello, fu bollato dalla cronaca come un delitto maturato negli ambienti gay e a scopo di rapina. In pratica qualche giovane malfattore, in cerca di soldi, sarebbe stato ricevuto - la sera del 29 marzo - da don Cesare con l’illusione di un incontro proibito. Poi qualcosa sarebbe andato storto, dunque le botte, la morte per soffocamento della dentiera e la messa in scena dell’incaprettamento. Mentre i soldi, presumibile movente dei balordi, rimasero al loro posto: 800mila lire nella tasca di don Cesare e cinque milioni in un cassetto della canonica. Sparirono invece due agende nelle quali il vecchio parroco annotava ogni dettaglio della sua vita e quella che scorreva nel borgo, tutt’altro che tranquilla.

E l’incaprettamento, possibile firma della malavita organizzata, finì per essere considerato un mero depistaggio. Ma solo agli occhi degli inquirenti. Perché al borgo, in pochi credettero a questa versione. Chi era don Cesare? Originario di Trebaseleghe (Padova), era arrivato a Borgo Montello negli anni Cinquanta. Un uomo puntiglioso e testardo e certamente non era uno che si faceva dire da altri quello che avrebbe o non avrebbe dovuto fare. Così i messaggi diretti o indiretti che di tanto in tanto riceveva, soprattutto negli ultimi cinque anni della sua lunga vita, non lo intimorivano affatto. Anzi, un bel giorno, prese il telefono e, attraverso uno dei suoi canali privilegiati, contattò chi di dovere. Forse l’inizio della sua disgrazia. A Borgo Montello soltanto da poco tempo si è tornati a parlare di don Cesare, mentre negli anni successivi alla tragedia il caso era diventato un tabù.

Non per don Cesare, ma per il messaggio celato con la sua uccisione. Qualcuno, almeno più di una persona, quell’avvertimento deve averlo percepito in tutta la sua drammaticità. Tanto che in men che non si dica ciò che si stava organizzando al borgo, ovvero la battaglia per la legalità della discarica, fu subito sciolto come neve al sole. Via le carte del comitato, via anche il comitato medesimo. Mai più infilare le mani nei rifiuti, nei rifiuti che sporcano il territorio e che arricchiscono le tasche dei potenti.

Ma perché, cosa era successo? Era successo che nottetempo camion provenienti dalle concerie di Vicenza e Arezzo scaricavano rifiuti speciali, il cui «smaltimento» nella discarica di Borgo Montello sarebbe stato garantito ad un prezzo molto concorrenziale per via delle omesse procedure di legge. Don Cesare sapeva. Don Cesare sapeva, perché parlava con i suoi parrocchiani e «registrava » le confidenze di tutti, soprattutto di quelle madri preoccupate dei figli che dopo un paio di notti sui tir tornavano a casa con un mucchio di soldi.

Voci, testimonianze, conferme. Mai smentite. Il bubbone scoppiò a seguito di una denuncia sporta da un ragazzo che, per vendicare il suo licenziamento, raccontò di certi fusti sospetti interrati nei pressi della discarica. Raccontò di operazioni di carotaggio prima, e di maxi sepolture dopo. Forse fu lui a parlare per primo di un intero rimorchio con tanto di carico sotterrato nella zona S-zero. Forse, perché nel frattempo il comitato civico, con al fianco il parroco, riuscì a convincere l’amministrazione comunale di Latina ad intervenire. Il sindaco Ajmone Finestra incaricò l’Enea per le ricerche. L’esito, con tanto di rilevi positivi sulla concentrazione di metalli, scomparve misteriosamente.

In un successivo studio la parte riguardante i rilievi fu omessa. Sulla questione neanche la Digos riuscì a cavare un buco dal ragno: dopo la testimonianza del ragazzo licenziato, gli agenti della Questura indagarono sul caso. Soltanto che nel frattempo eseguire scavi era diventato impossibile per via della successiva stratificazione dei rifiuti, ma una bolla di trasporto rintracciata dagli investigatori segnava un percorso tutt’altro che trascurabile nella redditizia filiera dei rifiuti radioattivi: Livorno, Latina, Caserta. Mentre le cronache dell’epoca parlavano della nave dei veleni. Siamo ad inizio anni ’90. E’ in questo contesto che va letto il messaggio dell’uccisione di Cesare Boschin? Dire alla gente del posto di tacere per non fare la stessa fine del vecchio parroco? 


 Articolo dell'Unità del 23 Agosto 2009
Don Cesare Boschin che aspetta ancora di avere giustizia

Il parroco di Borgo Montello (Lt) fu trovato incaprettato in canonica. Aveva raccontato di uno strano giro di rifiuti. Don Ciotti chiede oggi di riaprire l’inchiesta sulla sua morte

 Il problema è che don Cesare sapeva tutto. Arrivato a Borgo Montello, frazione di Latina, negli anni cinquanta dal Veneto, era un prete di quelli che scambiano la strada per la chiesa e nella strada trovano le omelie più giuste per la domenica. Per questo, perché glielo diceva la strada, don Cesare Boschin pochi giorni prima del 30 marzo 1995 era andato a trovare il capitano dei carabinieri. E avevano parlato a lungo delle cose strane che stavano accadendo intorno e accanto alla discarica: carichi notturni, via vai di camion, cattivi odori. Troppo tardi. O troppo presto. Perché la mattina del 30 marzo 1995 don Cesare, 81 anni, fu trovato nel suo letto in canonica massacrato di botte, incaprettato, il cerotto sulla bocca. Un assassinio di violenza inaudita liquidato lì per lì come una rapina di balordi, forse polacchi. Poi soffiò la calunnia, «una vendetta maturata in ambienti gay»: fa così la mafia quando vuol confondere le idee e depistare. Di quella storia, infatti, per anni non si è saputo più nulla a parte qualche temerario locale come Elvio Di Cesare, presidente dell’associazione Caponnetto-Lazio, che ha continuato a cercare e scavare. Oggi la morte di don Cesare Boschin diventa un capitolo della complessa vicenda delle infiltrazioni di mafia nel sud del Lazio. DonCiotti e Libera chiedono la riapertura dell’inchiesta collegandola «a una vendetta da parte delle ecomafie». Scrivono i pm della Dda di Roma Diana DeMartino e Francesco Curcio, titolari delle inchieste Damasco 1 e 2 che hanno portato in carcere mezza amministrazione comunale di Fondi con l’accusa di essere collusa con gli interessi delle ‘ndrine calabresi e dei clan di camorra attivi nell’Agro Pontino: «Nella stragrande maggioranza dei casi si è proceduto da parte delle diverse autorità giudiziarie di questo distretto (Latina ndr.) rubricando la massa dei fatti oggetto di indagine – in realtà di stampo mafioso – in fatti di criminalità comune».
Quattordici anni dopo il dossier di don Cesare torna nell’agenda della cronaca. L’associazione «Articolo 21» - ospite della giornata della legalità organizzata ieri dal Pd nella piazza di Fondi, comune infiltrato che il governo non vuole sciogliere - ha ricordato come già nel 1996 Carmine Schiavone, cassiere dei cartelli casalesi, avesse spiegato gli interessi dei clan di camorra e delle ‘ndrine calabresi sul basso Lazio, droga, rifiuti, appalti, la politica. Schiavone raccontò la spartizione degli affari città per città. AFondi c’erano i Tripodo, delle nota famiglia di ‘ndrangheta: «Si occupavano di stupefacenti, noi gli davamo dai 15 ai 30 kg al mese di cocaina». I fratelli Tripodo sono i protagonisti delle inchieste Damasco e la chiave per capire la capacità di infiltrazione della mafia nel territorio dell’Agro Pontino. E si torna a don Cesare, alle ecomafie e al movente del suo assassinio. Don Cesare sapeva che in quei mesi del ’95 nella discarica di Borgo Montello arrivavano di notte camion carichi di fusti di rifiuti. Glielo dicevano le persone che incontrava per strada. Glielo dicevano le mamme i cui figli guadagnavano «500mila lire a viaggio». Da dove? Allora navigavano lungo le coste italiane navi zeppe di rifiuti tossici. Non le voleva nessuno, per un po’ furono ormeggiate a Livorno. Solo anni dopo furono trovate bolle che testimoniavano che quei camion si muovevano lungo la tratta Livorno-Borgo Montello-Caserta. Solo oggi la Regione Lazio ha dato ordine di verificare cosa c’è sotto «S-zero», la parte dismessa della discarica di Borgo Montello. L’Arpa ha sentenziato in questi giorni: ci sono fusti tossici, a centinaia. Quelli di cui parlava don Cesare con il capitano dei carabinieri pochi giorni prima di morire. 




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QUEL PASTICCIACCIO BRUTTO DI BORGO MONTELLO

di Andrea Palladino - Agosto 2014 


Roma, per ora, respira. La monnezza delle strade si vede raramente. L’emergenza è finalmente lontana. Ad appena cinquanta chilometri, direzione Sud. C’è un fiume, una pianura, decine di serre, trattori, contadini con la loro lingua antica. E una collina, strana, verde pallido. E’ Borgo Montello, Latina, la discarica che da mesi accoglie una parte dei rifiuti romani che Marino non vuole vedere dalle sue parti. Inghiotte tutto, come ha sempre fatto. Negli anni ’80 prendeva quei fusti neri delle industrie criminali; poi “il triturato misto”, melme confuse di chimica e fanghi. Oggi la Forsu, ovvero gli scarti umidi delle città, selezionati dai mostri d’acciaio chiamati TMB. Roba che puzza come prima, che emette gas, percolati. Che – come in tutte le discariche del Lazio – violenta la terra.

Già, la terra. Da queste parti negli anni ’30 l’hanno strappata alla palude. Venti ettari a famiglia, dove spaccarsi la schiena per generazioni. E’ un susseguirsi di argille scure e sabbie, da mescolare e accudire. Guardando le mappe catastali della provincia a sud di Roma si riconosce quella suddivisione dell’era che qui chiamano della “Fondazione”. Era l’epoca di Littoria, quando la corruzione il fascismo la teneva nascosta, chiusa nei dossier da usare per ricattare tutti. Nell’ufficio del catasto quella terra oggi coperta da 40 metri monnezza, per un’estensione di 40 ettari (provate a fare i calcoli per avere il senso della violenza insita nella storia delle scorie italiane) occupa il foglio 21. E poi i lotti, tanti, decine di numeri, divisi tra otto invasi, che marcano il tempo dagli anni ’70 in poi, segnaposto della memoria per chi qui è nato e cresciuto. Per i monnezzari quei numeri sono tutto. Sono potere, affermazione imprenditoriale, spesso una scommessa sugli affari del futuro. Non c’è riforma agraria che regga alla potenza di una discarica.

Latina è particolare. Qualcuno dice una sorta di camera di compensazione complessa e delicata. C’è l’anima nera, nerissima, fatta di gente che offriva vergini ai camerati assassini in fuga. C’è il potere democristiano inossidabile, cresciuto sotto le ali di Andreotti e dello squalo Sbardella. Ci sono i poteri criminali che si incontrano, si scambiano favori e affari. C’è un fiume di droga, come in tutte le province italiane. Ma c’è qualcosa di diverso tra i canali della bonifica, un senso impercettibile e sfuggente di potere ancora più complesso. Ed è forse per questo che anche per la monnezza, da queste parti, le cose si fanno complicate.

Partiamo da un anno chiave, il 1994. Uno strano imprenditore napoletano – tale Giovanni De Pierro – compra in blocco una vecchia discarica in parte abbandonata. Terra inservibile, intrisa di percolato. La compra da un fallimento di una società, la Ecomont, che qualche tempo prima era stata costituita da un variegato gruppo: un imprenditore siciliano, qualche studente e un paio di casalinghe. Quell’investimento sarà l’inizio di una complessa vicenda amministrativa e giudiziaria. Poco dopo il rogito l’amministrazione fallimentare della Ecomont chiede – e in parte ottiene – la revoca dell’atto, aprendo un contenzioso che dura fino ad oggi. Verificando chi possiede le terre della discarica di Latina in conservatoria si scopre un vero e proprio ginepraio, dove è molto difficile avere una situazione certa.

Dopo vent’anni, nel gennaio del 2014, il Gico della Guardia di Finanza sequestra il patrimonio di De Pierro. Centinaia di società, holding estere, conti correnti. E una parte di quelle terre di Borgo Montello, ancora oggi contese. Una normale storia di riciclaggio all’italiana? Forse. O forse qualcosa di più. Quelle terre imbarazzano, in tanti evitano di parlare dell’affare strampalato del 1994, di quell’acquisto finito nei fascicoli della Finanza.

Nel 2007 e poi nel 2009, quando la società Ecomabiente ottiene l’autorizzazione per ampliare la discarica, la Regione Lazio ignora completamente la complicata questione della proprietà di quelle terre. Nei documenti ufficiali scrive che quell’area appartiene al gestore. Insomma una bugia. Poi nel 2014 – quando quell’autorizzazione viene rinnovata – il gestore Ecoambiente assicura che nessun sequestro è mai avvenuto. Eppure l’atto della magistratura è stato regolarmente trascritto nella conservatoria e l’area sequestrata rientra nella zona gestita dalla società (corrisponde con la parte degli uffici, l’ingresso dei camion e la pesa, come si può dedurre dalle mappe catastali confrontate con le foto aeree).

La vicenda del passaggio delle terre di Borgo Montello continua a rimanere in buona parte un piccolo mistero di questa provincia del sud del Lazio. Un pasticciaccio brutto, la punta di iceberg di una vicenda oscura. Da quel 1994 – anno dell’arrivo da queste parti dell’investitore napoletano – si può partire in un viaggio della memoria, a ritroso. Una porta del tempo, tra veleni, omicidi eccellenti e giochi di potere.



C’è un omicidio che pesa sulla storia di Latina come un macigno. Un caso irrisolto, la morte del parroco di Borgo Montello avvenuta il 30 marzo del 1995. Si chiamava don Cesare Boschin, un veneto arrivato in provincia di Latina – in località Le Ferriere – nel 1950, con l’incarico di ricostruire la chiesa di Santa Maria Goretti. Gli viene affidata la parrocchia di Borgo Montello, dove dagli anni ’30 si erano insediati i contadini provenienti dal Veneto. Qui morirà quarantacinque anni dopo, soffocato e malmenato nella sua canonica. Il caso si è chiuso con un’archiviazione, disposta dal Gip di Latina, su richiesta della Procura che non riuscì – nelle brevi indagini – ad arrivare a individuare responsabili e moventi.

Con la sua morte si chiude un primo ciclo, e se ne apre un altro, che dura fino ai nostri giorni nella gestione dei rifiuti nella locale discarica. Quell’omicidio rappresenta un punto di svolta, simbolico, anche se fino ad oggi ufficialmente non si conosce il movente. La discarica di Borgo Montello era nata nel 1971 con la gestione di due imprenditori italiani arrivati dalla Tunisia, Andrea Proietto e Umberto Chini (Vedi: La società ProChi, delle famiglie Proietto e Chini, primi gestori di Borgo Montello). Facevano parte di un gruppo ampio di ex coloni emigrati in nord Africa, costretti poi ad abbandonare quei paesi. I loro primi passi – ricordava l’ex senatore socialista Maurizio Calvi – furono accompagnati e sponsorizzati dal Psi. Fino al 1988 sostanzialmente la gestione dei rifiuti della provincia di Latina era in mano a questo gruppo locale.

Il cambiamento radicale avviene con l’arrivo di un imprenditore da fuori regione, Biagio Giuseppe Maruca, originario di Bompietro, in provincia di Palermo. Il 30 ottobre 1989, davanti al notaio Angelo Federici di Roma, otto persone costituiscono la Ecotecna, Trattamento rifiuti. Sono Domenico D’Alessio, operaio, Franco Marini, operaio, Ciro Salerni, impiegato, Rosa Manganelli, operaia, Bruna Minestrelli, casalinga, Federico Primiani, studente, Livio Trincia, operaio e, infine, Biagio Maruca. Un mese dopo la Ecotecna acquista una prima parte dei terreni della zona di Borgo Montello, preparandosi a gestire la discarica. I due imprenditori Chini e Proietto a loro volta vendono tutto a Maruca, incassando una lauta liquidazione. Un anno prima, il 10 maggio del 1988, si era costituita la società Ecomont, amministrata da Riccardo Maruca (imprenditore coinvolto recentemente in un’inchiesta della procura di Agrigento per false fatturazioni). Questo passaggio societario è il punto di svolta, che – da lì a poco – aprirà la strada ai colossi industriali nazionali, seguendo uno schema comune a molte discariche italiane.

L’ex senatore Maurizio Calvi (che per due legislature – dal 1989 al 1994 – ha fatto parte della commissione antimafia) ha raccontato come dietro Biagio Maruca vi fosse la cordata politica andreottiana, rappresentata in quel momento da Vittorio Sbardella. E’ un dato molto importante per capire cosa accade a Borgo Montello a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. E’ l’epoca d’oro della Dc e del Psi, partiti affidati a due tesorieri che diverranno famosi grazie a Tangentopoli, Giorgio Moschetti, detto “er biondo”, uomo di fiducia di Sbardella, e Paris Dell’Unto, detto “il roscio”, cassiere fedelissimo della corrente craxiana. Ai vertici della Regione Lazio c’è una staffetta tra Bruno Landi – socialista, divenuto poi amministratore della Ecoambiente, arrestato lo scorso 9 gennaio per l’inchiesta romana su Cerroni – e Rodolfo Gigli, democristiano passato poi nelle fila di Forza Italia. Anche a Latina, dopo il 1987, c’è un cambio di potere. La giunta Corona – appoggiata dal Psi – viene sostituita da Delio Redi, andreottiano di ferro, come ricorda Maurizio Calvi.

All’inizio degli anni ’90 arriva a Borgo Montello il gruppo Pisante, holding lombarda specializzata nei servizi ambientali. Il gruppo a Roma in quel periodo ha qualche guaio giudiziario, a causa di un’inchiesta su un appalto per la gestione dei depuratori di Acea. La richiesta presentata nel 1993 al Senato per poter procedere contro l’ex tesoriere della Dc (leggi: Domanda di autorizzazione a procedere contro Giorgio Moschetti - Fonte: Senato) ipotizzava il versamento di una serie di tangenti ai due tesorieri Dc e Psi romani per la realizzazione di diversi appalti. Le imprese coinvolte erano ben conosciute nel campo dei servizi ambientali. Oltre al gruppo Acqua dei fratelli Pisante, nelle carte della magistratura appariva anche Romano Tronci (imprenditore del settore dei rifiuti che operava anche nella discarica di Pitelli) per la De Bartolomeis, colosso specializzato in impianti di trattamento dei rifiuti.

E’ questo il contesto politico che in quegli anni vede in azione il gruppo di Biagio Maruca (mai coinvolto in indagini penali), l’imprenditore che traghetta la seconda discarica del Lazio dalle mani di Proietto e Chini a quelle dei grandi gruppi. Oggi i due impianti – dopo una serie di passaggi societari – sono controllati dalla Green Holding della famiglia Grossi (società che controlla Indeco) e dal gruppo riconducibile a Manlio Cerroni (che possiede il 49% della Ecoambiente).
Quella fase un po’ convulsa si conclude – almeno apparentemente – nel 1994, quando lo sconosciuto Giovanni De Pierro acquista in blocco quella parte di discarica che era stata abbandonata da Biagio Maruca. La figura di questo imprenditore è un vero giallo. La Guardia di Finanza nei mesi scorsi, con due diverse operazioni, ha sequestrato un patrimonio riconducibile alla sua famiglia di 350 milioni di euro. Una cifra enorme, nascosta in una rete di centinaia di società. Il suo gruppo era specializzato nella manutenzione e nei servizi ambientali per le grandi industrie. E questo è l’unico filo che lo lega al territorio della provincia di Latina, dove operano moltissime fabbriche chimiche e farmaceutiche. Secondo un’inchiesta della procura di Potenza del 2003 (leggi l’ordinanza del GIP che si dichiarava non competente sul sito dei creditori Federconsorzi) De Pierro avrebbe fatto parte di una vera e propria “holding del malaffare”. In quell’indagine la Procura aveva contestato all’imprenditore il ruolo di copromotore di una associazione per delinquere “impegnata nel settore degli appalti”.
La storia della discarica di Borgo Montello deve essere ancora in buona parte scritta. E’ un luogo poco fortunato per le società che decidono di investire da queste parti. Il gruppo Cerroni, rappresentato a Latina da Bruno Landi, è oggi sotto processo a Roma; Francesco Colucci, socio di Cerroni nell’affare discariche, è stato recentemente arrestato ed è al centro di un’inchiesta della Procura di Milano. Anche l’altro gruppo imprenditoriale, riconducibile alla Green Holding di Milano, non ha avuto buona sorte. Il patron Giuseppe Grossi – scomparso da poco – ha subito una condanna a Milano per la bonifica di Santa Giulia, insieme alla manager del suo gruppo Cesarina Ferruzzi, ben nota nella discarica di Borgo Montello. La questione della proprietà delle terre è ancora aperta, mentre la Procura di Latina ha chiesto il rinvio a giudizio di tre consiglieri di amministrazione di Ecoambiente per avvelenamento colposo delle acque, reato particolarmente grave.
Intanto per la Regione Lazio va tutto bene. Senza colpo ferire lo scorso luglio la giunta Zingaretti ha approvato il rinnovo delle autorizzazioni integrate ambientali, dando il via libera alla realizzazione di due nuovi impianti di trattamento di rifiuti. Quel pasticciaccio brutto nascosto sotto le colline artificiali di monnezza di Borgo Montello in fondo interessa a pochi.

Intervista a Maurizio Calvi - ex senatore PSI:


Giulio Andreotti - Vittorio Sbardella - Delio Redi
Bruno Landi - Paris Dell'Unto - Giorgio Moschetti
DON CESARE BOSCHIN
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Lazio, informazione e mafie: un “cono d’ombra” sulle notizie del sud Pontino
di Graziella Di Mambro il 26 agosto 2014. Web L'analisi  -
 
(da: http://www.liberainformazione.org/2014/08/26/lazio-informazione-e-mafie-un-cono-dombra-sulle-notizie-del-sud-pontino/



Una sparatoria a Latina non vale quanto una a Roma o Milano. E la camorra che avanza in tutta la provincia sta nei titoli di coda dei tg nazionali, quando va bene. O nei riassunti dei media nazionali, quando è inevitabile perché viene intercettato un chilo di tritolo destinato a far saltare un’azienda di Fondi. Un cono d’ombra avvolge l’agro pontino, impedisce alle notizie del sud del Lazio di avere diritto di cittadinanza sui mass media nazionali. Gli unici - diciamolo – che possono far cambiare l’attenzione della politica e del Paese verso i territori e accendere i riflettori su emergenze troppo a lungo trascurate. C’è in fondo qualcosa che rende queste notizie prigioniere di stereotipi storici e geografici, ancora oggi che ha mostrato le sue fragilità di ordine pubblico e sociale.

Escalation di violenza che “non fa” notizia. Se nel capoluogo, una città di 120mila abitanti, avvengono tre attentati in 72 ore e questo non “fa notizia” neppure per la Tgr del Lazio, allora c’è qualcosa di più profondo che pone Latina ai margini nonostante la sua storia recente, piena zeppa di prove di un’escalation criminale che non nascondono più neppure i negazionisti più incalliti. Se scrivi Latina, leggi «caso Fondi», al massimo «processo Sfinge», il nomignolo di Rosaria Schiavone che dominava tra Cisterna e Nettuno. E nel frattempo, l’intera rete degli impianti di produzione del fotovoltaico sui Lepini (luogo tranquillo) è stata letteralmente distrutta da tre attentati dolosi in un mese; l’ingresso di Terracina è costellato di immondizia come l’ingresso dell’agro aversano; a Latina si spara in pieno pomeriggio; ad Aprilia si sta costruendo un numero di appartamenti pari al triplo delle necessità reali e nessuno sa da dove arrivano i capitali; a Minturno il Comune non vuole le ville abusive confiscate ad una società che era stata autorizzata dalla stessa amministrazione in carica oggi; a Formia è accertato dalla Procura che un consigliere ha fatto gli interessi della famiglia Bardellino… Si potrebbe continuare all’infinito e non trovare quasi nulla di tutto questo sui media nazionali. E forse è tutta colpa della Storia romantica e suadente che accompagna questa provincia? Per cui chi ne scrive è tutt’ora affascinato e legato all’immagine languida e felice di questa terra? Sabaudia è sempre la spiaggia delle dune frequentata da Alberto Moravia, San Felice sempre il borgo amato da Anna Magnani, Aprilia la terra del kiwi, Terracina il luogo delle vacanze di Aldo Moro e Formia il lungomare dell’esilio di Antonio Gramsci e Ventotene l’isola dove è stata scritta la prima vera carta per l’Europa.



La cartolina sempre uguale a se stessa. Nel 90% dei (pochi) articoli di respiro nazionale dedicati a Latina c’è tutto questo con un riferimento, sempre disponibile, per la «città nera fondata da Mussolini». In questo modo, sarà sempre difficile capire che oltre ai canali realizzati da Benito Mussolini a Latina hanno costruito una discarica di 50 ettari che ha già inquinato, è certificato, le falde tra Aprilia e Pontinia. E che a Sabaudia ci sono 19mila abitanti, circa altrettanti turisti nelle seconde case ad agosto e 15mila indiani che vivono in condizioni di semischiavitù per raccogliere le zucchine che vanno sui mercati di mezza europa. E che a Terracina il clan Licciardi si è fatto strada insieme ai Mallardo nel commerci e che, probabilmente, se Aldo Moro andasse ancora lì in vacanza lo denuncerebbe. E che il Mof è della Regione Lazio ma la stessa Regione lo ha lasciato senza i soldi per pagare le ditte di pulizie figurarsi se si può accorgere e andare a denunciare alla tv nazionale che i clan vogliono far saltare in aria le aziende associate con la dinamite. Questo volto della provincia di Latina, così diverso dall’immagine tradizionale ancora coltivata in tanti pezzi, è il grande «buco» dell’informazione nazionale. A pochi passi dalla Capitale, sempre al centro delle cronache di Tg e giornali. Perché non vogliamo vedere e raccontare?

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Graziella Di Mambro, giornalista. E’ vicedirettrice de “Il Quotidiano di Latina”




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Don Cesare Boschin e i veleni dell’ecomafia

di Rossella Muroni

Mentre l’Italia entra nel settimo anno di crisi economica, il volume di affari delle Ecomafie continua a salire. Un’economia che continua a costruire case abusive mentre il mercato immobiliare legale tracolla. Con imprese illegali che vedono crescere fatturati ed export, quando quelle che rispettano le leggi sono costrette a chiudere i battenti. Un’economia che si regge sull’intreccio tra imprenditori senza scrupoli, politici conniventi, funzionari pubblici infedeli, professionisti senza etica e veri boss, e che opera attraverso il dumping ambientale, la falsificazione di fatture e bilanci, l’evasione fiscale e il riciclaggio, la corruzione, il voto di scambio e la spartizione degli appalti. Semplicemente perché conviene e, tutto sommato, si corrono pochi rischi. Ogni anno nel nostro Paese si consumano oltre 30mila reati contro l’ambiente: dalle discariche abusive alle cave illegali, dall’inquinamento dell’aria agli scarichi fuorilegge nei corsi d’acqua. E la provincia del Lazio con il litorale più esteso e ricco di zone a tutela ambientale, rimane una delle province preferite dagli ecomafiosi. In questo territorio nella lotta all’ecomafia il nostro punto  di riferimento resta Don Cesare Boschin, parroco della parrocchia di Borgo Montello ucciso nella sua canonica nel 1995 perchè aveva denunciato il traffico notturno e illegale di rifiuti e di droga che interessava la relativa discarica.



Qui, tra Latina, Sabaudia e San Felice Circeo, le cosche mafiose sono ormai ben radicate e strutturate sul territorio e da anni concentrano i loro affari d’oro legati al ciclo illegale del cemento, dei rifi uti e delle agromafie, causando gravi conseguenze all’ambiente e alla salute dei cittadini. Una situazione allarmante confermata anche dall’ultimo Rapporto Ecomafia 2013 di Legambiente, secondo il quale la provincia di Latina si colloca al 9° posto nella classifica delle province italiane per reati ambientali. Le infrazioni accertate nel capoluogo pontino nel 2012 sono state 744, il 2,2% del totale nazionale. A ciò si aggiunge la pesante vicenda della discarica di Borgo Montello anche alla luce delle dichiarazioni desecretate, in questi giorni, del boss Carmine Schiavone sui veleni e le scorie del clan dei Casalesi. Nel Lazio, invece, nel 2012 sono state accertate 2.800 infrazioni, ossia l’8,2% del totale nazionale, pari a 7,7 illegalità al giorno, con un aumento di 463 infrazioni accertate rispetto al 2011. Si tratta quasi sempre di reati che vengono sanzionati in maniera assolutamente ineffi cace e con tempi di prescrizione estremamente rapidi. Da oltre vent’anni Legambiente chiede l’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel Codice penale, come previsto anche dalla lettera e dalla sostanza della direttiva comunitaria del 2008, formalmente recepita ma di fatto fi nora disattesa dal nostro Paese. La verità è che fino a oggi, nel nostro Paese, è stata consentita la sistematica devastazione del territorio e degli ecosistemi, grazie a una legislazione penale ambientale sostanzialmente contravvenzionale, senza alcuna capacità deterrente e con la garanzia di immunità per i responsabili. Nell’ultimo periodo è tornato in aula un Disegno di legge sui reati ambientali.



Lo aspettavamo da anni, troppi e finalmente l’Italia potrebbe dotarsi di quella che Legambiente non ha esitato a defi nire una riforma di civiltà! Un’occasione unica per riaffermare quel ruolo di tutela e di garanzia della giustizia che lo Stato deve rappresentare davanti ai suoi cittadini. Peccato che allo stesso tempo il Senato abbia celermente approvato un disegno di legge – il Ddl Falanga – recante “Disposizioni in materia di criteri di priorità per l’esecuzione di procedure di demolizioni di manufatti abusivi”: un furbo tentativo di giungere ad una sanatoria di fatto degli abusi edilizi. Insomma se con il Disegno sui reati ambientali lo Stato, il Governo provano finalmente a dire “In Italia chi inquina paga”, il disegno di legge sugli abusi edilizi approvato in Senato dimostra che la battaglia è ancora lungi dall’essere vinta.

Rossella Muroni è direttrice nazionale Legambiente
Fonte: La Via Libera – Speciale 22 marzo
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Morte nella Canonica
di Angela Di Pietro


E' una mattina livida di marzo, una mattina che non omaggia i primi palpiti primaverili. Nel piccolo borgo Montello, ingentilito dalla fastosità sfiorita di  un castello, l'aria è ostile, quasi sulfurea.
Un velo scomposto di nebbia si adagia, cauto, tra gli edifici bassi, tra le seggiole di plastica di un bar, tra le strade asfaltate che s'intersecano, in un gioco cromatico disadorno, con i ciottoli di vicoli sterrati che portano ai poderi.
Qui non esiste una quadratura architettonica, la vivacità cosmopolita è sostituita da un pudore contadino che invita alla discrezione, che tiene le persiane delle finestre chiuse, perlopiù. Da alcune di esse emerge l'eco di tendine di cotone orlate da merletti. Questo è il borgo che ospita la chiesa seicentesca della Santissima Annunziata, dove Santa Maria Goretti fece la prima comunione. Questo è il borgo dei campi immoti, delle famiglie laboriose che coltivano i campi e di quelle inquietanti colline sovrastate dai gabbiani in cui vengono scaricate tonnellate di rifiuti ogni giorno, avvelenando l'ipotesi bucolica di un fazzoletto di terra verde e fertilissima in cui mettere radici.
Il trenta marzo 1995, mentre dalle labbra ancora dolci di caffè esce fumo freddo, nella canonica del borgo che dista pochi metri dalla chiesa, si consuma l'ultimo capitolo di una storia impossibile da scrivere. Il vecchio parroco dal piglio padronale, don Cesare Boschin, che avrebbe compiuto 81 anni ad ottobre,  vene trovato morto nel suo letto dalla fedele perpetua, tale Franca Rosato. Un nastro adesivo con il quale doveva essere zittito, gli è scivolato sul collo. Le mani ed i piedi sono legati le une agli altri in maniera apparentemente casuale. Il corpo filiforme del parroco giace in una posizione scomposta, come se l'ultimo respiro avesse sorpreso Don Cesare Boschin durante un'inutile battaglia contro la morte. Soffocato dalla sua protesi dentaria,  si dirà. La sua stanza da letto rilascia i segni inevitabili di una violenza: abiti, documenti, oggetti imbrattano la camera come se essa fosse la tela di un quadro profanata dai vandali. La perpetua a cui è affidata la pulizia della canonica ha le guance rese rubizze dall'emozione, dallo stress, anche dal freddo. Ma non si  sottrae alle domande e racconta come seguendo un macabro refrain le fasi della scoperta del cadavere. Ha salito, dice, la rampa di scale che porta all'appartamento del parroco, alle nove e trenta come ogni mattina, per sbrigare le faccende domestiche. Si è stupita: dalla casa disposta su un unico piano e progettata in maniera funzionale più che armonica, non sono arrivati rumori della televisione accesa. Poi è entrata nella camera ed ha visto quelle labbra spalancate, il  corpo senza vita sul letto. Infine è scappata per chiedere aiuto.
Cesare Boschin (classe 1914, veneto di Tresabeleghe, un fazzoletto di terra in cui abbondano le acque sorgive) faceva di mestiere il parroco in pensione - almeno ufficialmente - perché in lui era ferrea l'intenzione di continuare a regnare religiosamente ma non solo sul piccolo borgo nel quale dimorava da cinquant'anni. Aveva gli occhi scuri e acuti come saette, la fisionomia di un ramo brunito che abbia resistito alla furia del tempo. Era proprietario di una personalità dominante, don Cesare,  autoritario ma anche autorevole. Un leader amato e non da tutti, in ogni caso fulcro attorno al quale gravitava la comunità del borgo che a lui si rivolgeva per le piccole e grandi incombenze gestionali di quel rigoglioso lembo di terra storpiato dalla discarica.
Torniamo alla mattina del trenta marzo. In un viavai convulso che è fatto di mestizia, ma anche di curiosità, s'affaccia la stampa, si affacciano il vescovo Domenico Pecile, che non riesce a dominare la tensione, sotto i  flash dei paparazzi (più tardi chiederà con cortese determinazione che non vengano pubblicate le foto del cadavere), s'affaccia il teutonico comandante provinciale dei carabinieri Basso, che invece mantiene un'ammirevole calma tanto che  giornalisti e fotografi  non incontrano difficoltà alcuna nell'esaminare la casa, nel fotografare le membra immobili del parroco ucciso, prima ancora che vengano conclusi i rilievi scientifici. I borghigiani, chiusi nei paltò,  s'interrogano su quella fine inaspettata. I carabinieri non rilasciano commenti ma è intuibile che una invisibile squadra di brigadieri si stia muovendo in altre sedi perché qualche sospetto deve esserci. Un sacerdote caccia via i fotoreporter che gli domandano un commento. Come fosse facile spiegare. Come fosse facile capire, nell'immediatezza dei fatti. E poi i commenti arrivano e sono quelli che ci si aspetta di avere in momenti come questo: don Boschin era una brava persona, sicuramente  è stato ucciso da chi voleva derubarlo.
E' successo a tarda notte, di sicuro, perché in serata almeno un paio di persone hanno parlato con lui e lui ad una di esse ha rivelato un timore forse inesprimibile nella sua compiutezza: non voleva essere lasciato solo. Ha pianto, ha supplicato. Ma chi può aver immaginato che i suoi non fossero solo gli sfoghi di un vecchio che tema la morte?

Intanto le persone ammesse a penetrare nei segreti di quella canonica continuano un tour inevitabilmente profanatore. Il pavimento è lucido, rimanda alla cura gentile di quella casa:  il pentolino, con i resti di una minestra, sul mobile della cucina, alla frugalità delle abitudini di chi ci vive. Frugalità non solo religiosa, frugalità intesa come parsimonia consolidata negli anni. E quel pentolino rivela più di quanto non si pensi: rivela la solitudine che talvolta si nasconde dietro uno stile di una vita abitudinario. Non c'è vezzo femminile nell'arredamento,  non c'è l'impronta del suo abitante, nella canonica. Solo l'ordine che dopo il raid notturno è diventato disordine. Una rapina, si dice. Prima sussurri, poi grida. Ma la quadratura del cerchio risulta anomala come anomala è la dimenticanza dei rapinatori, che hanno lasciato in quella casa ottocentomila lire che il parroco teneva nella tasca della tunica, persino un calice d'oro. Sono sparite invece due agendine nelle quali il parroco raccoglieva i numeri di telefono da ricordare. Ma nella tarda mattinata, quando i mass media vanno a riferire nelle redazioni, a quantificare il loro pur dolente bottino, quando un mesto raggio di sole s'insinua fra le nuvole, l'ipotesi investigativa dei carabinieri converge verso una definitiva (frettolosa?) conclusione. La quadratura del cerchio già citata è inevitabilmente ovvia, quasi fosse copiata dalle pagine di cronaca di una squallida periferia urbana: il delitto è maturato nel mondo dei balordi, di quella oscura comunità di extracomunitari che lavora nella zona. Due di essi sono fuggiti, subito dopo l'omicidio. Tuttavia resta un silenzio irrisolto negli sguardi degli abitanti di Borgo Montello. L'impero di don Boschin è mestamente finito, evviva don Boschin. E dietro le persiane che si richiudono, oltre i motori delle automobili che si allontanano dal borgo, il silenzio torna immobile, a cristallizzare ma non a uccidere anche i dubbi.




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